Bajo los árboles de la estación se encienden las luces.
Gella sabe que a esta hora su madre regresa de los prados
con el delantal repleto. Mientras espera el tren,
Gella mira entre el verde y sonríe al pensar
en pararse ella también, entre los faroles, a recoger hierba.
Gella sabe que su madre, de joven, estuvo en la ciudad
una vez: ella, todas las tardes al oscurecer, regresa,
y en el tren recuerda vidrieras espejeantes
y personas que pasan y no miran a la cara.
La ciudad de su madre es un patio encerrado
entre paredes, y la gente se asoma a los balcones.
Gella regresa cada tarde con los ojos distraídos
en colores y deseos y, mientras el tren se aleja,
piensa, al ritmo monótono, netos perfiles de calles
entre las luces, y colinas atravesadas de avenidas y de vida
y alborozo de jóvenes, de andar franco y risa dominante.
Gella está harta de ir y venir, y regresar a la noche
y no vivir entre las casas y en medio de las viñas.
A la ciudad la querría sobre aquellas colinas,
luminosa, secreta, y no moverse más.
Así es muy distinta. A la noche reencuentra
a los hermanos, que vuelven descalzos de algún trabajo,
a la madre atezada, y se habla de tierras
y ella se sienta en silencio. Pero todavía recuerda
que, muy chica, volvía ella también con su montón de hierba:
sólo que aquellos eran juegos. Y la madre que suda
recogiendo la hierba, porque hace treinta años
la recoge cada tarde, bien podría una vez
quedarse en casa. Nadie la busca.
También Gella querría quedarse, sola, en los prados,
pero llegar a los más solitarios, y tal vez a los bosques.
Y esperar la noche y ensuciarse en la hierba
y tal vez en el fango y nunca más volver a la ciudad.
No hacer nada, porque no hay nada que le sirva a nadie.
Como hacen las cabras, arrancar solamente las hojas más verdes,
y que se le empapen los cabellos, sudados y quemados,
de rocío nocturno. Endurecer las carnes
y ennegrecer y arrancarse la ropas, para que en la ciudad
no la quieran más. Gella está harta de ir y venir
y sonríe con el pensamiento de entrar en la ciudad
desfigurada y descompuesta. Hasta que las colinas y las viñas
desaparezcan, y pueda pasear por las avenidas
donde estaban los prados, cada noche, riendo,
Gella tendrá estos deseos, mirando desde el tren.
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Italia, 1908- Turín, Italia, 1950), "Lavorare stanca" (1936, 1943), Trabajar cansa. Vendrá la muerte y tendrá tus ojos, Griselda García Editora, Del Dock, Cartografías, Buenos Aires, 2018
Versión de Jorge Aulicino
Otra Iglesia Es Imposible - Fondazione Cesare Pavese - Griselda García Editora -
Eterna Cadencia - Nosotros - Indie Hoy - Revista Ñ - Infobae - El Litoral - Página 12
Imagen: Retrato de Cesare Pavese por César Bandin Ron El Placer de Dibujar y Crear/Pinterest
Imagen: Retrato de Cesare Pavese por César Bandin Ron El Placer de Dibujar y Crear/Pinterest
Gente che non capisce
Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest'ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l'erba.
Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s'affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell'erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l'erba, perché da trent'anni
l'ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.
Anche Gella vorrebbe restarsene sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell'erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c'è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov'erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.
Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest'ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l'erba.
Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muraglie, e la gente s'affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell'erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l'erba, perché da trent'anni
l'ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben restarsene in casa. Nessuno la cerca.
Anche Gella vorrebbe restarsene sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell'erba
e magari nel fango e mai più ritornare in città.
Non far nulla, perché non c'è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov'erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.
Poesie, Mondadori, Milán, 1969
qué hermoso es
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